martedì, febbraio 03, 2009

Ulver - Shadows of the Sun


Il potere del buio.
La forza devastante del silenzio.
L’immenso abbraccio della solitudine.
Shadows of the Sun non è, come potrebbe apparire ad un’immersione superficiale, semplicemente questo.
E’ un flusso in continua evoluzione, solo apparentemente immobile. Incessante, ciclico, infinito. La sua forza giace tanto nelle intense e toccanti melodie, quanto nei particolari. Nove capitoli, da percepire spalancando se stessi, alla ricerca del calore che giace sotto la gelida superficie di questo oceano inesplorato e misterioso.
Un percorso da intraprendere in solitudine, preferibilmente in quei momenti di assoluto abbandono che precedono il sonno, quando il tempo sembra rallentare, fino all’annullamento. Un’intimità profonda che mai prima d’ora, nella musica della band norvegese, si era manifestata con atmosfere tanto avvolgenti. Musicalmente ci troviamo dentro ad un’opera dal sapore atmosferico, ambientale. Una corrente di suoni soffusi, ovattati, a tratti acquatici, a tratti cosmici. Alcune gocce di pianoforte, su una liscia superficie di archi caldissimi come legno. Curatissimi arrangiamenti elettronici, appena percepibili, nella coltre nebbiosa del muro di suono.
E sovrana, ma mai eccessivamente melodrammatica, si erge la voce di Kristoffer Rygg (Garm), a guidarci in questa infinita immersione. Un’immersione che ci porterà ad esplorare gli angoli bui della nostra coscienza. Quegli angoli che ogni essere umano, volente o nolente, dovrà prima o poi affrontare.
Lunghe note di organo ci introducono in un’ambiente illuminato dalla luce del crepuscolo, mentre fili di violino si intrecciano, malinconici. L’utilizzo degli archi, certe volte in veste solista, altre come tappeto, risulta incredibilmente efficace nella sua semplicità e non risulta mai eccessivo. Essi contribuiscono a creare quel muro sonoro annichilente che richiama certa musica cosmica tedesca di quasi quarant’anni fa. Ma i volumi sono soffusi, mai opprimenti e pesanti. La funzione non è quella di ipnotizzare l’ascoltatore, per portarlo in un’altra dimensione, bensì quella di avvolgerlo, facendolo immergere nella meditazione profonda. Le semplici ma forti parole pronunciate da Garm sono la chiave, per superare l’oscurità. La voce è caldissima, profonda, dona ossigeno e distende la mente. Cori profondi, inumani, si fondono con i sintetizzatori, per trasportarci dove non abbiamo mai avuto il coraggio. E da sott’acqua si intravedono le note di un pianoforte, che in punta di piedi guidano la danza melodica. Per alcuni attimi si intravede il suono dei fiati, per lo più sfibrati, stanchi, incredibilmente fisici, con il compito, perfettamente eseguito, di colorare l’opera con intenso calore. Raramente c’è spazio per le percussioni, ma quando queste si liberano dalla stretta del silenzio, risuonano ricche di echi. Non c’è più traccia del trip-hop notturno di Perdition City, né delle sperimentazioni intricate di Blood Inside. In Shadows of the Sun ci sono briciole di ogni esperienza precedente, ma la sensibilità è completamente nuova. Una musica riflessiva, che in certi frangenti si apre in squarci melodici abbaglianti. Musica spaziale, per la sua capacità di evocare ampi spazi fisici, a tre dimensioni, oltre che immensi spazi mentali. E proprio in questi spazi dovremo avventurarci, per affrontare le nostre più profonde e naturali paure, per toccare lo spettro della nostra finitudine.

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