giovedì, febbraio 21, 2013

Alice in Chains - Dirt (1992)


Nel grido iniziale di Them Bones, che apre Dirt, si nasconde l’orgasmo dopo l’iniezione di eroina e, al tempo stesso, il dolore lancinante della propria sconfitta. Uno dei pochi attimi di ambiguità in un’opera che ben presto crolla nella sporcizia e nella sofferenza, senza possibilità (e volontà) di scampo. In pochi secondi l’oscura progressione metallica trascina le parole di Layne Staley nel  buio più profondo, e rimane soltanto la rabbia a ricordare di esser ancora vivi.  Lucida presa di coscienza di uno stato di autodistruzione prossimo al punto di non ritorno, e nessuna forza (e volontà, ripeto) in grado di sbloccare questo tetro stadio di contemplazione apatica.

E’ il 1992 quando Dirt viene pubblicato, giusto in tempo per cavalcare l’ondata grunge che in quel periodo si sta abbattendo sugli stereo degli adolescenti annoiati dagli eccessi degli anni 80. A quasi venti anni di distanza, Dirt conferma la sua spaventosa forza espressiva, che lo rende uno degli apici assoluti del sound di quegli anni, e un capolavoro al di fuori del tempo e delle mode. Un disco intenso e toccante, senza attimi di tregua nè cali di intensità.

Fin dal brano di apertura veniamo travolti da un  flusso vocale fluttuante e ipnotico, dal sapore morboso, nel quale si miscelano le straordinarie voci di Layne Staley e Jerry Cantrell. Uno sdoppiamento inscindibile che fa rabbrividire per capacità espressiva e che renderà unico il sound del gruppo all’interno del panorama musicale. Questo contribuisce a dipingere melodie in perenne deformazione e dilatazione, in continuo oscillare tra straniamento e angoscia. Dopo la partenza, tanto rabbiosa e ringhiante, quanto agghiacciante nella sua ineluttabilità, l’album propone un altro energico brano composto da Cantrell, Dam that River, un hard rock acido che richiama le atmosfere del primo album, e nel quale si nasconde la volontà di non accettare la forza trascinante dell’eroina, ma anche l’impossibilità di affrontarla. In questa debolezza, e nel suo autocompiacimento, Dirt si riallaccia con forza alla disillusione che ha reso popolare il fenomeno grunge, in contrapposizione all’energia apparentemente incontrastabile esaltata dalla musica degli anni 80. Non secondario il fatto che tale spinta autodistruttiva e disincantata venga proprio da una band che ha profonde radici nel contesto musicale dello street rock e che fin dal primo eccellente album si era imbattuta nei meccanismi della musica mainstream. Che la strada intrapresa dalla band di Seattle sia sempre più distante da quella dei Guns n’ Roses è confermato da Rain when I Day, monumentale brano psichedelico che si apre con una tempesta di blues acido dall’incedere lento e obliquo, eternamente sfilacciato in un mare di riverberi (anche vocali), e prosegue in un fangoso susseguirsi di riff colmi di wah wah. Uno dei punti di forza dell’album è proprio la chitarra di Jerry Cantrell, compressa e chirurgica, che intreccia riff pesanti, a metà tra il metal possente del Black Album dei Metallica e l’hard rock acido, soprattutto negli assoli infuocati, nei fraseggi sdoppiati e nello straordinario utilizzo del wah wah, che amplifica l’effetto oscillatorio e di precario equilibrio dell’intero album. Il baratro allucinatorio viene toccato in Sickman, brano dissonante e schizoide, in cui Staley canta la propria malattia a cavallo di una tetra e sfasata musica da Luna Park, sorta di rilettura malata di I want You (She’s so Heavy) dei Beatles. Vertiginosa perdita di controllo verso una paranoia disturbante, per certi versi simile ad una spirale psichedelica, in cui i colori non sono quelli affascinanti della summer of love, ma accesi e surreali flash di un cattivo viaggio. Siamo di fronte ad una perversa musica per la mente, unica nel suo genere, dai toni schifosamente sinceri e sentiti, tanto quanto i brani più sporchi dei Velvet Underground. I ritmi si placano, e le atmosfere malinconiche di Rooster donano un senso di attesa sottilmente inquietante, anche perché i testi (dedicati da Cantrell a suo padre, veterano della guerra del Vietnam)  sono ancora una volta spaventosi, e nell’esplosione distorta che spezza la struttura della ballata si nasconde l’eco di una bomba, che contribuisce a rendere plumbea l’atmosfera di un album nel quale i raggi di luce sono solo immaginari. Junkhead, con il suo incedere sabbathiano, è il grottesco raggio di luce. Un inno compiaciuto alla propria dipendenza, con  un orgoglio ostentato tanto agghiacciante quanto triste, soprattutto se confrontato con la vergogna cantata nella splendida Dirt. La title track  si apre con un affascinante fraseggio dal sapore orientale e, se musicalmente è una sorta di prosecuzione del brano precedente, dal punto di vista tematico ne è l’antitesi completa. Vergogna, senso di inadeguatezza e incapacità, voglia di morire. La vera e propria fine dell’epoca del sex, drugs & rock n’ roll, attraverso una rilettura personale e moderna della musica catacombale dei primi Black Sabbath. La sofferenza di Layne Staley (che nel 2002 cadrà in quell’abisso dal quale era ossessionato, come Mike Starr nove anni dopo) è intima ma, per certi versi, contagiosa. Forse perché è rimasta una rabbia bruciante e un eco romantico che, seppur disilluso, rende appassionanti, e mai meritevoli di semplice compassione, i versi del cantante.  Godsmack, con la sua voce distorta e i riff metal, è il perfetto passaggio dinamico prima che la delirante e ironica Iron Gland (citazione di Iron Man dei Black Sabbath, con urla di Tom Araya degli Slayer) faccia da ponte per l’alienante Hate to Feel. Tornano le cantilene e le strutture spezzate, le sovrapposizioni melodiche surreali, ipnotiche e ossessive. La voce (e con lei tutta la musica che si intreccia, si sdoppia e si avvolge in essa) è di una spossatezza infinita e probabilmente irrimediabile,  nonostante alcune esplosioni passionali. Vorticosa e disorientante, è uno degli episodi più dissonanti della discografia della band, che se in alcune melodie vocali (e a tratti nel timbro acido di Staley) ricorda i Nirvana, e in alcune soluzioni musicali i Soundgarden, nel complesso suona assolutamente unica all’interno della realtà di Seattle. A dimostrazione di una poetica solo in parte legata all’immaginario grunge, giunge l’inquietante Angry Chair. Spaventoso gioco di specchi, è un bad trip che sfrutta la pesantezza del metal per generare oppressione, con bordate possenti che stravolgono l’idea  di base, mutuata probabilmente dai Melvins, per dipingere uno scenario da incubo, dal gusto repellente. Dopo la ferocia disturbante di Angry Chair, lato oscuro di Staley,  la quiete di Down in a Hole, ad opera di Cantrell, è quasi catartica. La fine del viaggio è in fondo ad una fossa, ma l’immaginario questa volta non è terrificante, bensì drammatico e commovente. Down in a Hole è una poesia martoriata e sofferta, una sorta di Requiem che trova le sue radici nei suoni del bellissimo ep Sap (1992) e che troverà ancora sfogo nelle chitarre acustiche di Jar of Flies (1994). Memorabile ballata romantica considerata, a ragione, uno degli apici della discografia della band. Would?, canzone oscura introdotta da uno straordinario giro di basso di Mike Starr, conclude il viaggio. Un punto interrogativo che lascia aperte le speranze di un ritorno, nonostante il corpo sia alla deriva e le possibilità di volare sembrino ridotte al minimo. Nell’ambiguità finale termina il cammino, uno dei più disturbanti ma anche commoventi mai descritti, continuo dissociarsi e sfocarsi tra, da un lato, la carne, e dall’altro, la mente. Il ricongiungimento non pare possibile, ma in quel punto interrogativo si cela un raggio di luce. Raggio che Layne Staley e Mike Starr non sapranno cogliere, perdendosi per sempre negli stessi incubi protagonisti di Dirt.

mercoledì, febbraio 20, 2013

The Jesus Lizard - Head (1990)

 
 
Lo scheletro dei Jesus Lizard nasce dal blues rumoristico e deviato degli Scratch Acid, band texana nella quale militavano il cantante David Yow e il bassista David Sims, prima di incontrare Steve Albini. L’incontro con Albini ucciderà una delle creature fondamentali del noise rock americano, ma contribuirà a crearne altre, a partire dai Rapeman nei quali conviveranno Albini e Sims, per finire proprio ai Jesus Lizard, dei quali Albini sarà produttore. Abbandonate le derive blues degli Scratch Acid i Lizard abbracciano la sferragliante dissonanza della chitarra di Duane Denison per approdare ad un rock ritmicamente meccanico e quadrato, sul quale si inseguono frammenti di riff spigolosi e arpeggi dissonanti, mentre annega e soffoca la voce perversa e malata di Yow. Abbandonata la drum machine utilizzata nell’ep d’esordio (Pure, 1989), i Lizard, con l’arrivo del batterista McNeilly, costruiscono un disco abrasivo e malato, tanto esaltante per dinamismo ritmico quanto disturbante per destrutturazione melodica. Un disco che nasce dal noise degli anni 80 ma che se ne distacca nettamente per l’assenza di qualsiasi ricerca sperimentale o rabbia hardcore. Head è musica drogata, capace di dilatarsi a dismisura, pur rimanendo nell’ambito di brani di 2-3 minuti, grazie alla capacità straniante degli arpeggi di Denison e all’ossessività dei suoi riff, perfettamente incastonati in una struttura ritmica sempre in movimento ma profondamente  alienante, come una sorta di scheletro joydivisioniano disarticolato. Il disagio e la paranoia che sporcano Head sono viscerali, vissuti, nascono dall’interno della nostra testa e non sono filtrati come potrebbe avvenire per opera di un osservatore esterno.  Yow vomita il vortice che lo ossessiona, un nichilismo disperato che non pretende di essere compreso o condiviso.

lunedì, ottobre 22, 2012

Codeine - Frigid Stars LP (1990)


Estate 1990. In un seminterrato di Brooklyn i tre membri dei Codeine registrano l’album di debutto. La musica che nasce da quello scantinato è desolata, disillusa, stanca. Fiacca il respiro come l’afa estiva, isola e avvolge come la nebbia autunnale, ipnotizza come le luci della metropoli, osservate dal finestrino di un’auto che corre sulla strada bagnata. Intimo e ipnotico, scivola a ritmo lentissimo, nel vuoto di una solitudine che non ha alternative. Un noise rock caratterizzato da arpeggi delicatamente dissonanti, rintocchi ritmici al rallentatore, e avvolgenti squarci di distorsione. Nichilista e stanco, Frigid Stars è un baratro verso il quale siamo tentati di dirigerci, nonostante la paura che è in grado di incutere. Un lavoro complesso, nonostante l’apparente staticità, che segna un profondo distacco anche nei confronti dell’indie rock del quale è figlio. Non ha paura di ricorrere a bagliori epici e commoventi, senza per questo mai cadere nell’enfasi esasperata che ha reso stucchevoli tante ballate rock. Esistenziale e catartico, nella sua semplicità, così come certi dischi di Neil Young e Nick Drake, si discosta da qualsiasi fonte di ispirazione grazie ad una personalità  dirompente, che è dimostrazione della sensibilità della band. Frigid Stars fungerà da ispirazione per tutti i gruppi che, negli anni successivi, si forgeranno del titolo slowcore o post rock, dai Low ai Mogwai, dai Bark Psychosis ai Godspeed You! Black Emperor.

lunedì, gennaio 23, 2012

Blackfield - Blackfield II (2007)

La nebbia del disco d’esordio si è diradata mostrandoci in modo evidente il grigio che ci circonda. Se il senso di affascinante mistero si è ridimensionato, è più esplicita la malinconia. Ormai diventati una band vera e propria, i Blackfield delineano in modo più esplicito sensazioni e atmosfere, confermando la capacità di elaborazione melodica attraverso 10 brani che brillano per melodie tanto semplici quanto mai banali, agrodolci bozzetti al tempo stesso nostalgici e appassionati, caldi e quietamente disperati, sempre in grado di entrare nella memoria emotiva dell’ascoltatore. La solitudine, spesso accompagnata da un senso di abbandono, è disegnata a tratti marcati da una musica matura e ricercata , mai eccessivamente sofferta grazie alla perfetta contrapposizione tra delicatezza e drammaticità. L’enfasi emotiva è accentuata dai ricercati arrangiamenti, che se perdono un po’ del sottile tocco psichedelico dell’esordio, si arricchiscono di orchestrazioni, per un risultato epico, a tratti cinematografico. Proprio come un film, il secondo album dei Blackfield necessita di una costante immersione nel soffice ed ovattato universo del sentimento, sognante e fantastico ma incredibilmente affascinante. Anche se l’esordio rimane inarrivabile per freschezza melodica e intimità, questo secondo capitolo appassiona per i ritmi lenti e rilassati oltre che per le atmosfere cupe. Un film da assaporare con gli occhi di un bambino, lasciandosi trasportare dalla emozioni. Come canta la maestosa End of the World, in un mondo senza speranza, addormentiamoci confidando che ci venga inviato un sogno.

venerdì, gennaio 13, 2012

Blackfield - Welcome to my DNA (2011)



Un uomo di fronte ad una spaziosa vetrata osserva un oceano di nuvole. La bella copertina di Welcome to my DNA (concepita da Carl Glover inizialmente per l’ultimo disco dei Marillion) ben si sposa con la serenità della musica della band di Wilson e Geffen, che mai in precedenza aveva ricercato atmosfere tanto solari. La delicata malinconia assume in quest’occasione un tono ancor più romantico che in passato, smarrendo il retrogusto sottilmente psichedelico e l’affascinante nostalgia dei primi due album, per avvicinarsi molto a sofisticato pop da classifica. Anziché lasciarsi andare a sussulti emotivi, l’album scorre in una quiete soffusa che da una parte ammalia e coinvolge per il suo spirito sentimentale, dall’altra stucca per alcuni passaggi ai limiti dello sdolcinato e del melenso. La sensibilità di Geffen è la vera protagonista dei Blackfield recenti, e la dimostrazione risiede nel fatto che il musicista israeliano abbia composto 10 degli 11 brani, e si sia preso cura di quasi tutti gli arrangiamenti orchestrali. Proprio l’abbondanza degli strati sonori a tratti risulta eccessiva e soffoca le melodie, togliendo un pizzico di intimità, in favore di una vena epica e maestosa. Ma nel complesso l’album emoziona, soprattutto quando con semplicità disegna melodie romantiche (Glass House, DNA). Il rischio di cadere nel calderone del pop da supermercato è quanto meno evidente ma la band riesce sempre a rimanere in bilico senza mai precipitare, grazie soprattutto ad alcuni lampi degni del sublime passato (Zigota).

mercoledì, gennaio 11, 2012

Pearl Jam - Vitalogy (1994)

Suicidio.
Un attacco di batteria secco e sporco. Una chitarra acida che graffia un riff dissonante. Musica tesa e nervosa, nella quale appare il fantasma della morte, che da qui in poi non abbandonerà più i solchi di Vitalogy. Frammenti di pensiero, conflittuali, tormentati. Last Exit.
Il suicidio come ultima, anzi unica, manifestazione di libertà in una vita non controllata da noi stessi? Oppure come atto di debolezza di fronte alle pressioni crescenti? O semplicemente ineluttabile?
Ultima e inesorabile uscita da una società ipocrita e malvagia, interessata a sfruttare le sofferenze altrui per nutrire la propria, apparente, forza, spesso penetrando negli spazi intimi con morbosità tale da controllare direttamente le nostre scelte.
I Pearl Jam non cercano compromessi nell’urlare in faccia il loro disagio. Per farlo si affidano ad atmosfere acide, schegge rugginose, immagini fuori fuoco, rabbia incontrollabile. Una poetica disturbante, fino a quel momento sconosciuta, nella discografia della band di Seattle. Not for You incarna alla perfezione la metamorfosi artistica del gruppo, con il suo corpo ringhiante, ed una coda che brilla di ipnotiche dissonanze, degne dei migliori Sonic Youth. Musicalmente spigoloso e sporco, Vitalogy è un disco ulceroso che non lascia spazio ai riff e agli assoli hard rock dei primi due album, tantomeno agli slanci melodici ed epici che hanno contribuito al successo del gruppo. Per certi versi simile a In Utero, come il disco dei Nirvana risente dell’influenza del noise americano degli anni 80 (Jesus Lizard e Pixies soprattutto), come per volersi riavvicinare ad una dimensione musicale indipendente dalle logiche di mercato, e per questo più sincera. La carica psichedelica, dal sapore vagamente noise, caratterizza Tremor Christ, enigmatica canzone che mostra quanto il lato drammatico sia prossimo a quello profondamente romantico, in un disco che come fine ultimo canta la libertà. Se il frammento Pry to è un esplicito richiamo al valore della privacy, Corduroy, splendido brano dai continui crescendo emotivi, approfondisce il tema focalizzando l’attenzione sull’ipocrisia di coloro che penetrano nella vita degli altri. Un elogio della libertà, non soltanto artistica, e una sfida da affrontare a testa alta.
Vitalogy vede la luce alla fine del 1994, anno in cui il fenomeno grunge, al quale i Pearl jam sono stati fin dall’inizio accostati, diventa immortale con il suicidio di Kurt Cobain. Il gesto del leader dei Nirvana è la dimostrazione di sincero disagio che tale stile musicale si trascina appresso, e , inevitabilmente, viene sfruttato economicamente da tutto il mondo dello spettacolo musicale. La morbosa curiosità di una folla in continua ricerca di miti da adorare alimenta il circolo vizioso, e rende sempre più grottesca e surreale la realtà del rock di quegli anni. I Pearl Jam, proprio come i Nirvana, sono tra i fautori di quella restaurazione della poetica rock mainstream in atto nei primi anni 90, sempre più lontana dagli effimeri sogni di trasgressione e libertà degli anni 80. E proprio come i Nirvana, vengono travolti e macinati dalla macchina del business che in pochissimo tempo inscatola le spinte vitali del rock di Seattle per poterlo vendere ad un pubblico di adolescenti, snaturandone quindi completamente le urgenze espressive. Vitalogy nasce in questo contesto, e ne è la perfetta sintesi. Strappo rabbioso nei confronti del passato, è un disco abrasivo, malato e disturbante, che non può non richiamare alla mente il colpo di fucile sparato da Cobain. Da una parte, proprio come questo, è ciò che la massa, e di conseguenza i grandi nomi del mercato musicale, vuole.
Vitalogy è diretto, aggressivo, senza compromessi. Spin the Black Circle, primo singolo tratto dal disco, è un brano violento e tirato, un punk rabbioso che mal si sposa con i precedenti singoli della band e con i trend musicali del momento. Senza contare che inneggia al fascino del vinile (con velati doppi sensi riguardanti l’abuso di eroina), ormai decisamente fuori moda. Abrasivo e ringhiante è anche Whipping, il quale si scaglia contro le forze antiabortiste, tornando alle tematiche sociali dei dischi precedenti.
Tra uno scatto d’ira e un grido disperato, c’è spazio per la malinconia intima delle ballate, orientate sui rapporti interpersonali. Nothingman mostra come i Pearl Jam siano perfettamente in grado di rielaborare la lezione di Neil Young, toccando l’anima con una storia di incomunicabilità e bugie. Un bozzetto semiacustico dalla bellezza abbagliante, al quale fa da contraltare Betterman, vecchia canzone di Vedder scritta ai tempi del suo primo gruppo, che si conclude con un’esplosione epica (una delle poche presenti nell’album) che lo renderà uno dei classici della band, nel corso degli anni.
I momenti riflessivi lasciano più spesso spazio al delirio incontrollabile (come dimostra il booklet, che riprende immagini e frammenti di un vecchio libretto degli anni 20, dedicato a consigli pseudo medici, tanto grotteschi quanto spaventosi per la carica di bigottismo). L’assurda Bugs è degna di Tom Waits in preda a delirium tremens, che, in tono completamente paranoide, richiama ancora una volta il tema dell’invasione nella sfera privata. Le schegge impazzite sono numerose, ma la più spaventosa è forse Mophandlemama, caotico incubo che chiude l’album con feedback chitarristici, frammenti di dialogo e voci distorte, ancora una volta in un’atmosfera kafkiana che culmina negli ennesimi richiami al tema del suicidio. L’ultima uscita per continuare a vivere è la morte?
Nessuna risposta. Solo fotografie sbiadite che galleggiano sulle note della splendida Immortality, istantanee sfocate in cui Vedder lascia fluire i conflitti che lo tormentano, con un’intensità poetica disarmante, apice di una delle opere più significative degli anni 90. Libertà, in fuga dalla società odierna, senza ritorno. L’attrazione dell’oblio è irresistibile. Alcuni muoiono soltanto per vivere.
"La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura." (Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

martedì, gennaio 10, 2012

Where I End and You Begin

Con il 2012 la Nuova Carne muore per resuscitare!
Lunga vita alla Nuova Carne!

...a presto...