mercoledì, gennaio 11, 2012

Pearl Jam - Vitalogy (1994)

Suicidio.
Un attacco di batteria secco e sporco. Una chitarra acida che graffia un riff dissonante. Musica tesa e nervosa, nella quale appare il fantasma della morte, che da qui in poi non abbandonerà più i solchi di Vitalogy. Frammenti di pensiero, conflittuali, tormentati. Last Exit.
Il suicidio come ultima, anzi unica, manifestazione di libertà in una vita non controllata da noi stessi? Oppure come atto di debolezza di fronte alle pressioni crescenti? O semplicemente ineluttabile?
Ultima e inesorabile uscita da una società ipocrita e malvagia, interessata a sfruttare le sofferenze altrui per nutrire la propria, apparente, forza, spesso penetrando negli spazi intimi con morbosità tale da controllare direttamente le nostre scelte.
I Pearl Jam non cercano compromessi nell’urlare in faccia il loro disagio. Per farlo si affidano ad atmosfere acide, schegge rugginose, immagini fuori fuoco, rabbia incontrollabile. Una poetica disturbante, fino a quel momento sconosciuta, nella discografia della band di Seattle. Not for You incarna alla perfezione la metamorfosi artistica del gruppo, con il suo corpo ringhiante, ed una coda che brilla di ipnotiche dissonanze, degne dei migliori Sonic Youth. Musicalmente spigoloso e sporco, Vitalogy è un disco ulceroso che non lascia spazio ai riff e agli assoli hard rock dei primi due album, tantomeno agli slanci melodici ed epici che hanno contribuito al successo del gruppo. Per certi versi simile a In Utero, come il disco dei Nirvana risente dell’influenza del noise americano degli anni 80 (Jesus Lizard e Pixies soprattutto), come per volersi riavvicinare ad una dimensione musicale indipendente dalle logiche di mercato, e per questo più sincera. La carica psichedelica, dal sapore vagamente noise, caratterizza Tremor Christ, enigmatica canzone che mostra quanto il lato drammatico sia prossimo a quello profondamente romantico, in un disco che come fine ultimo canta la libertà. Se il frammento Pry to è un esplicito richiamo al valore della privacy, Corduroy, splendido brano dai continui crescendo emotivi, approfondisce il tema focalizzando l’attenzione sull’ipocrisia di coloro che penetrano nella vita degli altri. Un elogio della libertà, non soltanto artistica, e una sfida da affrontare a testa alta.
Vitalogy vede la luce alla fine del 1994, anno in cui il fenomeno grunge, al quale i Pearl jam sono stati fin dall’inizio accostati, diventa immortale con il suicidio di Kurt Cobain. Il gesto del leader dei Nirvana è la dimostrazione di sincero disagio che tale stile musicale si trascina appresso, e , inevitabilmente, viene sfruttato economicamente da tutto il mondo dello spettacolo musicale. La morbosa curiosità di una folla in continua ricerca di miti da adorare alimenta il circolo vizioso, e rende sempre più grottesca e surreale la realtà del rock di quegli anni. I Pearl Jam, proprio come i Nirvana, sono tra i fautori di quella restaurazione della poetica rock mainstream in atto nei primi anni 90, sempre più lontana dagli effimeri sogni di trasgressione e libertà degli anni 80. E proprio come i Nirvana, vengono travolti e macinati dalla macchina del business che in pochissimo tempo inscatola le spinte vitali del rock di Seattle per poterlo vendere ad un pubblico di adolescenti, snaturandone quindi completamente le urgenze espressive. Vitalogy nasce in questo contesto, e ne è la perfetta sintesi. Strappo rabbioso nei confronti del passato, è un disco abrasivo, malato e disturbante, che non può non richiamare alla mente il colpo di fucile sparato da Cobain. Da una parte, proprio come questo, è ciò che la massa, e di conseguenza i grandi nomi del mercato musicale, vuole.
Vitalogy è diretto, aggressivo, senza compromessi. Spin the Black Circle, primo singolo tratto dal disco, è un brano violento e tirato, un punk rabbioso che mal si sposa con i precedenti singoli della band e con i trend musicali del momento. Senza contare che inneggia al fascino del vinile (con velati doppi sensi riguardanti l’abuso di eroina), ormai decisamente fuori moda. Abrasivo e ringhiante è anche Whipping, il quale si scaglia contro le forze antiabortiste, tornando alle tematiche sociali dei dischi precedenti.
Tra uno scatto d’ira e un grido disperato, c’è spazio per la malinconia intima delle ballate, orientate sui rapporti interpersonali. Nothingman mostra come i Pearl Jam siano perfettamente in grado di rielaborare la lezione di Neil Young, toccando l’anima con una storia di incomunicabilità e bugie. Un bozzetto semiacustico dalla bellezza abbagliante, al quale fa da contraltare Betterman, vecchia canzone di Vedder scritta ai tempi del suo primo gruppo, che si conclude con un’esplosione epica (una delle poche presenti nell’album) che lo renderà uno dei classici della band, nel corso degli anni.
I momenti riflessivi lasciano più spesso spazio al delirio incontrollabile (come dimostra il booklet, che riprende immagini e frammenti di un vecchio libretto degli anni 20, dedicato a consigli pseudo medici, tanto grotteschi quanto spaventosi per la carica di bigottismo). L’assurda Bugs è degna di Tom Waits in preda a delirium tremens, che, in tono completamente paranoide, richiama ancora una volta il tema dell’invasione nella sfera privata. Le schegge impazzite sono numerose, ma la più spaventosa è forse Mophandlemama, caotico incubo che chiude l’album con feedback chitarristici, frammenti di dialogo e voci distorte, ancora una volta in un’atmosfera kafkiana che culmina negli ennesimi richiami al tema del suicidio. L’ultima uscita per continuare a vivere è la morte?
Nessuna risposta. Solo fotografie sbiadite che galleggiano sulle note della splendida Immortality, istantanee sfocate in cui Vedder lascia fluire i conflitti che lo tormentano, con un’intensità poetica disarmante, apice di una delle opere più significative degli anni 90. Libertà, in fuga dalla società odierna, senza ritorno. L’attrazione dell’oblio è irresistibile. Alcuni muoiono soltanto per vivere.
"La vertigine è qualcosa di diverso dalla paura di cadere. La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura." (Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

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