Avenida de los Insurgentes è una delle strade cittadine più lunghe del mondo. Attraversa da cima a fondo Città del Messico, e nel suo articolato percorso incontra le varie anime della città. Il suo nome è un ricordo in onore dei rivoluzionari che si sono sacrificati per l’indipendenza della nazione messicana.
Steven Wilson, da tempo legato al Messico, nel suo primo vero e proprio disco solista (in precedenza, a suo nome, erano stati pubblicati solamente alcuni dischi di cover) percorre una strada lunga e complessa, che risale la sua carriera, attraversando ogni momento cruciale. Una strada che funge anche da omaggio per tutti gli artisti che hanno lasciato il segno, nella musica di Wilson. Insurgentes è lo stesso Wilson, mosso da una profonda voglia di rivoluzionare il proprio modo di comporre, per una volta completamente libero di spaziare, in qualsiasi direzione. Indubbiamente il lavoro più intimo e personale che l’autore, principale mente dietro al progetto Porcupine Tree, abbia mai concepito.
Tra gli arpeggi malinconici, le esplosioni rumoristiche, i crescendo psichedelici e gli stacchi elettronici c’è l’anima del musicista inglese, che, come già sottolineato nell’ultimo disco della sua band madre, cerca di comporre un’opera pura, completamente svincolata dalle logiche superficiali della società attuale. E’ necessaria un’immersione profonda nella musica, che è accompagnata anche da una prestigiosa veste grafica, da Wilson considerata parte integrante dell’opera. Oltre all’edizione normale del disco viene infatti pubblicata un’edizione deluxe con un gran numero di immagini in grande formato, oltre a dischi aggiuntivi in surround 5.1, per amplificare l’effetto avvolgente e psichedelico dell’esperienza. E un filmato, preparato da Lasse Hoile (già autore dell’artwork, insieme a Carl Glover) si sviluppa in parallelo al disco. Un’opera molto pretenziosa e complessa, che ha l’obiettivo di combattere la superficialità che caratterizza la “internet generation”, non solo dal punto di vista artistico/musicale.
Nel contorto percorso che si snoda nell’opera, Wilson abbraccia le varie anime della sua carriera: da quella più sperimentale e legata all’ambient (Veneno para las hadas) e al drone/noise (Get All You Deserve) , a quella intrisa di semplice ma efficace elettronica (Abandoner), fino al prog (No Twilight within the Court of the Sun) e al pop psichedelico (Significant Other). Una carrellata di bozzetti dal sapore psichedelico e onirico, vagamente inquietante e straniante, che il musicista, accompagniato da professionisti del rock progressivo e della musica sperimentale (da Tony Levin a Dirk Serries, da Jordan Rudess a Theo Travis), racconta con la sensibilità di chi affronta i vecchi ricordi e li mescola alle nuove passioni. Per una volta sono messi da parte il metal e i Pink Floyd, per addentrarsi in una rete di nuovi suoni e nuove soluzioni che ultimamente appassionano il musicista inglese.
Caratteristica fondamentale di Insurgentes sono i testi surreali, briciole di pensieri spezzettati che, più che raccontare, evocano immagini. Amplificando quindi l’effetto della musica, i testi contribuiscono a creare visioni di spazi sconfinati, dal sapore classicamente cinematografico.
Le danze si aprono con l’arpeggio di Harmony Korine (il titolo è un omaggio al regista americano, famoso per pellicola altamente sperimentali, come Gummo, che spesso trattano il tema dell’abbrutimento della società e in particolare delle giovani generazioni; e anche il surreale video della canzone è un insieme di citazioni cinematografiche), un richiamo alle tracce d’apertura del recente passato di Wilson (Fear of a Blank Planet dei Porcupine Tree ma anche Once dei Blackfield). L’atmosfera è immediatamente plumbea, gelida, colorata di un grigio senso di disillusione che l’esplosione del ritornello, ai limiti dello shoegaze, contribuisce ad amplificare. C’è un senso di spaesamento psichedelico e di confusione sensoriale in questo brano, senza dubbio legato profondamento ad altre composizioni di Wilson (forse troppo), ma non per questo poco affascinante.
Abandoner si apre dopo le ultime scintille della traccia d’apertura, e si adagia su una base trip hop fortemente debitrice dei Massive Attack, oltre che sui riavvolgimenti della chitarra di Sand Snowman, ospite poco conosciuto ma assolutamente efficace all’economia della canzone, che sembra avvolgersi su se stessa, immersa nei fumi psichedelici e annichilenti che avevano già caratterizzato il brano precedente. I suoni sono curatissimi e cristallini, ma non risultano mai esageratamente artefatti, grazie anche alla cura per gli arrangiamenti, che risultano spesso davvero affascinanti, come nella coda esplosiva della stessa Abandoner, che dopo un ossessivo ripetersi di note in stile codice morse, deflagra in una scia di droni chitarristici e sintetici figli della passione di Wilson per band quali Sunn O))) e Nadja (come già si intuiva dal suo progetto parallelo Continuum).
Lo strisciante e perverso synth che ci introduce in Salvaging è ancora una volta un omaggio alla musica oscura che ultimamente appassiona Wilson, che non risulta patetico nel citare i Nine Inch Nails, essendo in grado di rileggere l’arte di Trent Reznor in modo personale. L’effetto psichedelico della voce, così distante e riverberata, è evidente, ed è rafforzato dall’apatica intonazione e dalla mancanza di forma melodica. Uno stacco strumentale a cavallo tra musica orchestrale da colonna sonora (soluzione che ricorda la coda della canzone Savant degli Oceansize) e post rock, seguita poi da un’esplosione noise, evidenziano la voglia di Wilson di mischiare tutte le sue passioni, in modo libero e poco vincolato alle aspettative dei suoi fans, senza però mai perdere personalità ma anzi rileggendo le innumerevoli citazioni con un’occhio profondamente wilsoniano, cioè legato sempre e comunque alla melodia e alla psichedelia.
Il tempo si ferma, anzi torna indietro. Veneno para las hadas è un passaggio dai sapori ambient, guidato da un basso ossessivo e da poche note di pianoforte. Una citazione evidente (troppo spudorata direi) di un vecchio classico dello stesso Wilson, che in questo brano non riesce a bilanciare l’esile equilibrio che corre nell’intero disco tra rilettura del passato, citazione delle nuove influenze, e novità sperimentali. Un’occasione perduta, per un musicista che, come dimostrano i suoi progetti paralleli a nome Bass Communion, è spesso riuscito a creare tappeti ambient originali e affascinati.
I toni si fanno subito dopo accesi e focosi, e nella lunga No Twilight within the Court of the Sun diventa protagonista la chitarra (suonata, oltre che dallo stesso Wilson, da Mike Outram), che si avvolge e si intreccia tra dissonanze vertiginose, note spezzate e ripartenze fulminee, debitrici dello stile chitarristico di Omar Rodriguez Lopez dei The Mars Volta, ma soprattutto di Robet Fripp. No Twilight within the Court of the Sun è la A Sailor’s Tale di Wilson. Ovviamente non ha la stessa genialità e carica innovativa del brano che i King Crimson hanno pubblicato nel loro bellissimo Islands, ma si dimostra un riuscitissimo episodio di rock progressivo sperimentale. La batteria (suonata nell’intero disco da Gavin Harrison dei Porcupine Tree) scivola liquida e delicata, sempre ricercata nei suoi arrangiamenti, per poi esplodere in una tempesta di energia, dimostrando quanto il batterista sia una pedina fondamentale nell’economia del disco. La struttura contorta ma perfettamente scorrevole del brano, caratterizzato da innumerevoli saliscendi, è il paradigma di un disco complesso ma scorrevole, difficile ma anche immediato, rumoroso e sperimentale ma anche melodico ed orecchiabile. Il finale è tutto dedicato al piano di Jordan Rudess dei Dream Theater, che qui dimostra di non aver perso lo smalto e il gusto melodico di un tempo nonostante la caduta verticale delle ultime produzioni targate Dream Theater.
Dopo circa 25 minuti di musica lontana dalla classica forma canzone, ci imbattiamo nella splendida Significant Other, brano di pop psichedelico chiaramente debitore dei Radiohead di OK Computer. Il ritmo si fa lento e rilassato, l’atmosfera sognante e solare, una spirale discendente della melodia vocale rende però il tutto sottilmente misterioso. L’esplosione del “ritornello” è un varco nel cielo, e prima di trasformarsi in un sibilo sintetico è introdotto dai bellissimi vocalizzi di Clodagh Simmonds dei Fovea Hex, che dimostra ancora una volta la bravura di Wilson nel saper sfruttare pienamente le doti dei suoi ospiti, che non si rendono mai invadenti.
Only Child è un altro brano classicamente rock, caratterizzato da un lento incedere guidato dal basso, e da poche note arpeggiate di chitarra dal sapore psichedelico. Una canzone che scorre senza lasciare particolari impressioni, nonostante interessanti suoni ricchi di eco nella coda finale, che sembrano sgretolare il brano in un mare di feedback che però, purtroppo, non arriva mai.
Si ha l’impressione di essersi impantanati in una formula troppo classica, ma la successiva Twilight Coda, brano strumentale guidato ancora una volta dal piano di Rudess, nonostante l’apparente normalità, nasconde una delicatezza emotivamente coinvolgente che dimostra, ancora una volta, la capacità, propria della musica di Wilson, di evocare grandi spazi.
La forza visiva e cinematografica di questo disco può, per alcuni, risultare un punto debole a causa della sua grande enfasi. Wilson non suggerisce atmosfere, bensì le dipinge chiare e forti. Questo può risultare costruito, poco sincero. Ma dimostra anche il desiderio di creare un’arte immediata (ma non banale), poco incline allo snobismo di tanti artisti sperimentali.
Twilight Coda introduce dolcemente in uno degli episodi maggiormente riusciti, la splendida Get All you Deserve. Nonostante le evidenti influenze, il brano suona wilsoniano al 100%, e non può lasciare indifferenti. Una lunga ed estenuante attesa, caratterizzata da un tono sommesso e poche note di pianoforte, pian piano accompagnate dagli immancabili arpeggi di chitarra riverberati e da cori ipnotici. Il lato intimo, ma sempre profondamente spettacolare e cinematografico, della poetica di Wilson si trova qui. L’attesa si trasforma in nervosismo, prima di esplodere in mille pezzi, in un oceano di feedback e muri impenetrabili di rumori chitarristici e sintetici. Mischiare in maniera così efficace melodia e rumore è il grande successo di Insurgentes, che nonostante alcuni evidenti momenti di calo, e alcune citazioni troppo poco elaborate e personalizzate, si dimostra un’opera riuscita, nel suo scavare nell’anima dell’autore.
Dopo l’apocalisse è il momento della quiete, e la title track è la conclusione perfetta. Il piano si intreccia in maniera sublime con il koto (strumento musicale cinese a 17 corde) suonato da Michiyo Yagi. Il risultato è una bellissima e delicata melodia pop, dolcemente malinconica ma ricca di speranza con il raggio di Sole che squarcia le nuvole, dopo la tempesta.
Se il disco ufficiale finisce con le note di piano della emozionante title track, l’edizione deluxe, pubblicata in anteprima, e presto andata esaurita a causa dell’esiguo numero di copie disponibile, contiene un secondo disco con 5 brani bonus, che non si discostano, come atmosfera e soluzioni tecniche, dai brani del disco principale. Port Rubicon è la perversa apertura. Un brano straordinario che alterna muri di suono impenetrabili a sbilenchi arpeggi di chitarra minimalisti, sui quali la voce di Wilson bisbiglia sofferente. Un episodio davvero interessante che avrebbe meritato una posizione di rilievo tra le dieci canzoni del disco madre. Puncture Wound riporta il tutto sui binari della classica forma canzone, talmente classica da risultare praticamente una citazione di A Forest dei The Cure. Il pezzo scorre bene, grazie anche a degli ottimi suoni sintetici, e la melodia è coinvolgente, nella sua rilettura oscura del pop psichedelico, ma la citazione è troppo evidente, quasi stucchevole. Collecting Spaces porta un raggio di Sole. 5 minuti di musica strumentale molto affascinante e piacevole, basata su un intreccio caleidoscopico di chitarre e pianoforte. Pur non essendo un brano memorabile, è sicuramente un passaggio ben riuscito. Troviamo poi una rilettura del brano che da il nome all’album (e che chiude il disco madre). Una nuova versione che cerca di ricreare l’atmosfera mistica della cattedrale di San Bartolomeo a Brighton, nella quale è stata registrata. In questo caso, anziché chiudersi nell’intimità come avviene nel brano gemello, la musica si spalanca verso spazi sconfinati. Chitarre e synth gridano nell’aria, ma non hanno la forza del koto, e il brano si dimostra meno affascinante della versione originale. Untitled (conosciuta anche come The 78) è l’ultimo respiro del disco. Una base elettronica si intreccia con gli arpeggi di chitarra, ma il brano, nonostante alcune soluzioni interessanti, non decolla mai.
In definitiva il disco bonus si dimostra molto alterno, e forse sarebbe stato meglio se Wilson avesse per un attimo fermato la sua iperproduttività, filtrando le idee buone, ad esempio inserendo Port Rubicon e Collecting Spaces nel disco madre (al posto di qualche episodio sottotono come Veneno para las hadas e Only Child) e accantonando altri brani che, seppur piacevoli, si dimostrano decisamente inferiori alla media.
Insurgentes, disco coraggioso e intimo di un musicista che vede accrescere sempre più il proprio successo, è un’opera nella quale Wilson ha investito gran parte di se stesso. Il risultato da una parte è un’ottimo mix di musica contorta e lineare, sporca e brillante, acida e dolce, rumorosa e melodica. Dall’altro un equilibrio esile sul filo delle citazioni, che per fortuna in rari casi cade nel “già sentito”. Citazioni di se stesso, e di chi lo ha sempre ispirato. Non siamo di fronte ad un disco sperimentale, per cui chi cerca mirabolanti novità si deve rivolgere altrove. Ma è un disco emozionante e originale, che mostra la capacità di sintesi e rielaborazione da sempre caratteristica principe di Wilson. Insurgentes, con i suoi picchi e i suoi (rari, per fortuna) momenti di calo, è un disco che racchiude tutti i pregi e i difetti della poetica di Wilson. Chi lo ama lo segua, non ne rimarrà deluso.
Tra gli arpeggi malinconici, le esplosioni rumoristiche, i crescendo psichedelici e gli stacchi elettronici c’è l’anima del musicista inglese, che, come già sottolineato nell’ultimo disco della sua band madre, cerca di comporre un’opera pura, completamente svincolata dalle logiche superficiali della società attuale. E’ necessaria un’immersione profonda nella musica, che è accompagnata anche da una prestigiosa veste grafica, da Wilson considerata parte integrante dell’opera. Oltre all’edizione normale del disco viene infatti pubblicata un’edizione deluxe con un gran numero di immagini in grande formato, oltre a dischi aggiuntivi in surround 5.1, per amplificare l’effetto avvolgente e psichedelico dell’esperienza. E un filmato, preparato da Lasse Hoile (già autore dell’artwork, insieme a Carl Glover) si sviluppa in parallelo al disco. Un’opera molto pretenziosa e complessa, che ha l’obiettivo di combattere la superficialità che caratterizza la “internet generation”, non solo dal punto di vista artistico/musicale.
Nel contorto percorso che si snoda nell’opera, Wilson abbraccia le varie anime della sua carriera: da quella più sperimentale e legata all’ambient (Veneno para las hadas) e al drone/noise (Get All You Deserve) , a quella intrisa di semplice ma efficace elettronica (Abandoner), fino al prog (No Twilight within the Court of the Sun) e al pop psichedelico (Significant Other). Una carrellata di bozzetti dal sapore psichedelico e onirico, vagamente inquietante e straniante, che il musicista, accompagniato da professionisti del rock progressivo e della musica sperimentale (da Tony Levin a Dirk Serries, da Jordan Rudess a Theo Travis), racconta con la sensibilità di chi affronta i vecchi ricordi e li mescola alle nuove passioni. Per una volta sono messi da parte il metal e i Pink Floyd, per addentrarsi in una rete di nuovi suoni e nuove soluzioni che ultimamente appassionano il musicista inglese.
Caratteristica fondamentale di Insurgentes sono i testi surreali, briciole di pensieri spezzettati che, più che raccontare, evocano immagini. Amplificando quindi l’effetto della musica, i testi contribuiscono a creare visioni di spazi sconfinati, dal sapore classicamente cinematografico.
Le danze si aprono con l’arpeggio di Harmony Korine (il titolo è un omaggio al regista americano, famoso per pellicola altamente sperimentali, come Gummo, che spesso trattano il tema dell’abbrutimento della società e in particolare delle giovani generazioni; e anche il surreale video della canzone è un insieme di citazioni cinematografiche), un richiamo alle tracce d’apertura del recente passato di Wilson (Fear of a Blank Planet dei Porcupine Tree ma anche Once dei Blackfield). L’atmosfera è immediatamente plumbea, gelida, colorata di un grigio senso di disillusione che l’esplosione del ritornello, ai limiti dello shoegaze, contribuisce ad amplificare. C’è un senso di spaesamento psichedelico e di confusione sensoriale in questo brano, senza dubbio legato profondamento ad altre composizioni di Wilson (forse troppo), ma non per questo poco affascinante.
Abandoner si apre dopo le ultime scintille della traccia d’apertura, e si adagia su una base trip hop fortemente debitrice dei Massive Attack, oltre che sui riavvolgimenti della chitarra di Sand Snowman, ospite poco conosciuto ma assolutamente efficace all’economia della canzone, che sembra avvolgersi su se stessa, immersa nei fumi psichedelici e annichilenti che avevano già caratterizzato il brano precedente. I suoni sono curatissimi e cristallini, ma non risultano mai esageratamente artefatti, grazie anche alla cura per gli arrangiamenti, che risultano spesso davvero affascinanti, come nella coda esplosiva della stessa Abandoner, che dopo un ossessivo ripetersi di note in stile codice morse, deflagra in una scia di droni chitarristici e sintetici figli della passione di Wilson per band quali Sunn O))) e Nadja (come già si intuiva dal suo progetto parallelo Continuum).
Lo strisciante e perverso synth che ci introduce in Salvaging è ancora una volta un omaggio alla musica oscura che ultimamente appassiona Wilson, che non risulta patetico nel citare i Nine Inch Nails, essendo in grado di rileggere l’arte di Trent Reznor in modo personale. L’effetto psichedelico della voce, così distante e riverberata, è evidente, ed è rafforzato dall’apatica intonazione e dalla mancanza di forma melodica. Uno stacco strumentale a cavallo tra musica orchestrale da colonna sonora (soluzione che ricorda la coda della canzone Savant degli Oceansize) e post rock, seguita poi da un’esplosione noise, evidenziano la voglia di Wilson di mischiare tutte le sue passioni, in modo libero e poco vincolato alle aspettative dei suoi fans, senza però mai perdere personalità ma anzi rileggendo le innumerevoli citazioni con un’occhio profondamente wilsoniano, cioè legato sempre e comunque alla melodia e alla psichedelia.
Il tempo si ferma, anzi torna indietro. Veneno para las hadas è un passaggio dai sapori ambient, guidato da un basso ossessivo e da poche note di pianoforte. Una citazione evidente (troppo spudorata direi) di un vecchio classico dello stesso Wilson, che in questo brano non riesce a bilanciare l’esile equilibrio che corre nell’intero disco tra rilettura del passato, citazione delle nuove influenze, e novità sperimentali. Un’occasione perduta, per un musicista che, come dimostrano i suoi progetti paralleli a nome Bass Communion, è spesso riuscito a creare tappeti ambient originali e affascinati.
I toni si fanno subito dopo accesi e focosi, e nella lunga No Twilight within the Court of the Sun diventa protagonista la chitarra (suonata, oltre che dallo stesso Wilson, da Mike Outram), che si avvolge e si intreccia tra dissonanze vertiginose, note spezzate e ripartenze fulminee, debitrici dello stile chitarristico di Omar Rodriguez Lopez dei The Mars Volta, ma soprattutto di Robet Fripp. No Twilight within the Court of the Sun è la A Sailor’s Tale di Wilson. Ovviamente non ha la stessa genialità e carica innovativa del brano che i King Crimson hanno pubblicato nel loro bellissimo Islands, ma si dimostra un riuscitissimo episodio di rock progressivo sperimentale. La batteria (suonata nell’intero disco da Gavin Harrison dei Porcupine Tree) scivola liquida e delicata, sempre ricercata nei suoi arrangiamenti, per poi esplodere in una tempesta di energia, dimostrando quanto il batterista sia una pedina fondamentale nell’economia del disco. La struttura contorta ma perfettamente scorrevole del brano, caratterizzato da innumerevoli saliscendi, è il paradigma di un disco complesso ma scorrevole, difficile ma anche immediato, rumoroso e sperimentale ma anche melodico ed orecchiabile. Il finale è tutto dedicato al piano di Jordan Rudess dei Dream Theater, che qui dimostra di non aver perso lo smalto e il gusto melodico di un tempo nonostante la caduta verticale delle ultime produzioni targate Dream Theater.
Dopo circa 25 minuti di musica lontana dalla classica forma canzone, ci imbattiamo nella splendida Significant Other, brano di pop psichedelico chiaramente debitore dei Radiohead di OK Computer. Il ritmo si fa lento e rilassato, l’atmosfera sognante e solare, una spirale discendente della melodia vocale rende però il tutto sottilmente misterioso. L’esplosione del “ritornello” è un varco nel cielo, e prima di trasformarsi in un sibilo sintetico è introdotto dai bellissimi vocalizzi di Clodagh Simmonds dei Fovea Hex, che dimostra ancora una volta la bravura di Wilson nel saper sfruttare pienamente le doti dei suoi ospiti, che non si rendono mai invadenti.
Only Child è un altro brano classicamente rock, caratterizzato da un lento incedere guidato dal basso, e da poche note arpeggiate di chitarra dal sapore psichedelico. Una canzone che scorre senza lasciare particolari impressioni, nonostante interessanti suoni ricchi di eco nella coda finale, che sembrano sgretolare il brano in un mare di feedback che però, purtroppo, non arriva mai.
Si ha l’impressione di essersi impantanati in una formula troppo classica, ma la successiva Twilight Coda, brano strumentale guidato ancora una volta dal piano di Rudess, nonostante l’apparente normalità, nasconde una delicatezza emotivamente coinvolgente che dimostra, ancora una volta, la capacità, propria della musica di Wilson, di evocare grandi spazi.
La forza visiva e cinematografica di questo disco può, per alcuni, risultare un punto debole a causa della sua grande enfasi. Wilson non suggerisce atmosfere, bensì le dipinge chiare e forti. Questo può risultare costruito, poco sincero. Ma dimostra anche il desiderio di creare un’arte immediata (ma non banale), poco incline allo snobismo di tanti artisti sperimentali.
Twilight Coda introduce dolcemente in uno degli episodi maggiormente riusciti, la splendida Get All you Deserve. Nonostante le evidenti influenze, il brano suona wilsoniano al 100%, e non può lasciare indifferenti. Una lunga ed estenuante attesa, caratterizzata da un tono sommesso e poche note di pianoforte, pian piano accompagnate dagli immancabili arpeggi di chitarra riverberati e da cori ipnotici. Il lato intimo, ma sempre profondamente spettacolare e cinematografico, della poetica di Wilson si trova qui. L’attesa si trasforma in nervosismo, prima di esplodere in mille pezzi, in un oceano di feedback e muri impenetrabili di rumori chitarristici e sintetici. Mischiare in maniera così efficace melodia e rumore è il grande successo di Insurgentes, che nonostante alcuni evidenti momenti di calo, e alcune citazioni troppo poco elaborate e personalizzate, si dimostra un’opera riuscita, nel suo scavare nell’anima dell’autore.
Dopo l’apocalisse è il momento della quiete, e la title track è la conclusione perfetta. Il piano si intreccia in maniera sublime con il koto (strumento musicale cinese a 17 corde) suonato da Michiyo Yagi. Il risultato è una bellissima e delicata melodia pop, dolcemente malinconica ma ricca di speranza con il raggio di Sole che squarcia le nuvole, dopo la tempesta.
Se il disco ufficiale finisce con le note di piano della emozionante title track, l’edizione deluxe, pubblicata in anteprima, e presto andata esaurita a causa dell’esiguo numero di copie disponibile, contiene un secondo disco con 5 brani bonus, che non si discostano, come atmosfera e soluzioni tecniche, dai brani del disco principale. Port Rubicon è la perversa apertura. Un brano straordinario che alterna muri di suono impenetrabili a sbilenchi arpeggi di chitarra minimalisti, sui quali la voce di Wilson bisbiglia sofferente. Un episodio davvero interessante che avrebbe meritato una posizione di rilievo tra le dieci canzoni del disco madre. Puncture Wound riporta il tutto sui binari della classica forma canzone, talmente classica da risultare praticamente una citazione di A Forest dei The Cure. Il pezzo scorre bene, grazie anche a degli ottimi suoni sintetici, e la melodia è coinvolgente, nella sua rilettura oscura del pop psichedelico, ma la citazione è troppo evidente, quasi stucchevole. Collecting Spaces porta un raggio di Sole. 5 minuti di musica strumentale molto affascinante e piacevole, basata su un intreccio caleidoscopico di chitarre e pianoforte. Pur non essendo un brano memorabile, è sicuramente un passaggio ben riuscito. Troviamo poi una rilettura del brano che da il nome all’album (e che chiude il disco madre). Una nuova versione che cerca di ricreare l’atmosfera mistica della cattedrale di San Bartolomeo a Brighton, nella quale è stata registrata. In questo caso, anziché chiudersi nell’intimità come avviene nel brano gemello, la musica si spalanca verso spazi sconfinati. Chitarre e synth gridano nell’aria, ma non hanno la forza del koto, e il brano si dimostra meno affascinante della versione originale. Untitled (conosciuta anche come The 78) è l’ultimo respiro del disco. Una base elettronica si intreccia con gli arpeggi di chitarra, ma il brano, nonostante alcune soluzioni interessanti, non decolla mai.
In definitiva il disco bonus si dimostra molto alterno, e forse sarebbe stato meglio se Wilson avesse per un attimo fermato la sua iperproduttività, filtrando le idee buone, ad esempio inserendo Port Rubicon e Collecting Spaces nel disco madre (al posto di qualche episodio sottotono come Veneno para las hadas e Only Child) e accantonando altri brani che, seppur piacevoli, si dimostrano decisamente inferiori alla media.
Insurgentes, disco coraggioso e intimo di un musicista che vede accrescere sempre più il proprio successo, è un’opera nella quale Wilson ha investito gran parte di se stesso. Il risultato da una parte è un’ottimo mix di musica contorta e lineare, sporca e brillante, acida e dolce, rumorosa e melodica. Dall’altro un equilibrio esile sul filo delle citazioni, che per fortuna in rari casi cade nel “già sentito”. Citazioni di se stesso, e di chi lo ha sempre ispirato. Non siamo di fronte ad un disco sperimentale, per cui chi cerca mirabolanti novità si deve rivolgere altrove. Ma è un disco emozionante e originale, che mostra la capacità di sintesi e rielaborazione da sempre caratteristica principe di Wilson. Insurgentes, con i suoi picchi e i suoi (rari, per fortuna) momenti di calo, è un disco che racchiude tutti i pregi e i difetti della poetica di Wilson. Chi lo ama lo segua, non ne rimarrà deluso.
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