sabato, marzo 22, 2008

Pink Floyd - The Wall


Le leggende narrano che Roger Waters abbia partorito una delle opere più famose del rock ispirandosi al suo crescente rifiuto per il sistema alienante che i suoi stessi Pink Floyd avevano contribuito a creare. Il gruppo infatti, nella seconda metà degli anni '70, aveva letteralmente stravolto l'idea di concerto, privando gli spettatori della propria identità, in favore di una “coscienza globale” che li facesse entrare direttamente nell'esperienza psichedelica. Nessuna droga era necessaria. Solo musica onirica, light-show liquidi, spazi sempre più ampi e una folla via via crescente, che oscillasse di fronte a quattro maschere di musicisti, ognuno perduto sul proprio lato oscuro della Luna. E se un tempo la psichedelia era sinonimo di apertura della mente, con il tempo diventò annientamento e anestesia. Quando questa agghiacciante realtà balzò nella mente di Waters, il bassista concepì uno spettacolo che superò l'idea di concept album tanto in voga negli anni '70, divenendo film (come accadde anche per Tommy degli The Who) e spettacolo teatrale vero e proprio. Ispirandosi alle proprie vicende personali e a quelle dell' ex-floydiano Syd Barrett, Waters realizzò un'opera sull'alienazione umana che è molto più profonda di un semplice rifiuto del music business e della società in generale che alcuni leggono in The Wall. Su una base musicale intensa e coinvolgente, che esce dai canoni classici della band, andando a prelevare caratteristiche sonore del rock più tradizionale e mescolandole ad una tristezza e disperazione ben più cupe e oscure delle precedenti produzioni sognanti dei quattro inglesi, si inserisce una storia di solitudine e dolore lacerante che parte dal primo vagito del protagonista. In quasi un'ora e mezzo di musica veniamo a imbatterci in riflessioni sulla violenza, sulla debolezza, sul tradimento. La forza di The Wall sta nella spinta esistenzialista che lo manda avanti, all'infinito (come dimostra la bellissima, enigmatica, “fine”). Infatti, anche se diversi piani di lettura si intrecciano nell'opera, il fulcro ruota sempre attorno alla figura di un uomo, incredibilmente solo, e incapace di aprirsi anche a se stesso. Attraverso la sua sofferenza viene messa in luce l'alienazione indotta da una società cinica e violenta (ed, essendo anch'egli parte della medesima società, anche da se stesso), la perdita di ogni ideale e la fuga nell'annichilimento. E mentre il protagonista tenta di dissolversi dietro un muro da lui costruito, il mondo che lo circonda cerca di esporlo, all'esterno. E la disperazione prende possesso dell'ascoltatore, trascinato con violenza in un mondo delirante, “un mondo che ci costringe ad essere normali, dove la normalità nasconde la sua disumanità, la sua mancanza di anima”*. Attraverso simboli e metafore, che nel film e nell'artwork del disco sono perfettamente rappresentate dai disegni cupi e oscuri di Gerald Scarfe, The Wall diventa una rappresentazione dell'esistenza. Prima l'estraniazione, poi, perduta ogni identità, il protagonista diventa una maschera, una vittima e carnefice al tempo stesso, un ingranaggio in un marchingegno che lo ha travolto, masticato, e cambiato. Ma la colpa non è solo di un sistema totalitario che guida la sua vita, ma anche di Pink stesso (nome del personaggio, ovvio riferimento alla band, e quindi alla maschera che Waters si era cucito addosso), che diventa una parte attiva nella corruzione della società che lo circonda. Il fatto che Pink sia un musicista serve non solo a criticare ferocemente il business musicale che stava masticando i Pink Floyd, ma anche per elevare il palcoscenico e gli spettatori a personaggi fondamentali di questa rappresentazione. Il disco si apre con una melodia appena accennata (che concluderà anche l' opera) prima di esplodere nel famosissimo riff di "In The Flesh?", guidato dalla voce soffocata di Waters, mentre esplosioni fragorose collegano alla morte del padre, primo mattone che andrà a costituire il muro che isolerà Pink. E l'accoglienza di Pink, alla sua nascita, non poteva essere più devastante. E l'alternarsi di momenti rilassati con altri di glaciale freddezza continueranno nel corso dell'album, per sottolineare l'inganno che si cela in ogni piccolo passo. Se "Another Brick in the Wall part II" è diventata una dei cavalli di battaglia dei Pink Floyd, grazie anche al bellissimo assolo di David Gilmour, che in questo disco avrà un ruolo molto più maginale rispetto ai precedenti, la prima parte della stessa canzone (che affronta il tema dell'infanzia) è un piccolo momento psichedelico dall'intensità spaventosa, capace di rapirci e trasportarci grazie al suo utilizzo del delay, fondamentale nel creare un riff ciclico e ipnotico (così come fu per “One of These Days”) fino quasi a farci svanire prima delle immancabili esplosioni psichiche di Pink, interiorizzazioni e paranoie tanto intense da farci entrare nella mente di un bambino incapace di liberarsi dalla protettività esasperata della madre, e in seguito della compagna. E questa debolezza scorre tra le tracce, trascinata dall'alternanza della voce disperata di Waters con quella malinconica di Gilmour, dagli arpeggi acustici perennemente tristi, da un basso incalzante e da una chitarra elettrica in grado di dipingere lacrime, così come dai laceranti momenti pianistici. E i rumori meccanici di "Empty Spaces", che seguono la nostalgica caduta della serenità di "Goodbye Blue Sky", sono il primo passo verso la vita adulta, nel vuoto. E nel vuoto, che chiude la prima parte del disco, cade la sanità mentale del protagonista, dopo alcuni momenti tesi e angoscianti, tra i sospiri e le esplosioni di furia di una rockstar definitivamente crollata . Costruito così il muro (dal vivo un vero e proprio muro dividerà fisicamente i musicisti dal pubblico), si entra nella seconda parte. Questa si apre con un inno di speranza, "Hey You", ma che presto cade in una agghiacciante presa di coscienza. Non c'è nessun Io, solo un muro. Chiuso in una stanza, tra visioni e angoscia, tra bisbiglii confusi, il protagonista affronta un cammino triste e decadente, attraverso pezzi come "Is There Anybody out There?", guidato da un bellissimo arpeggio acustico e "Nobody Home", solo piano e voce per un nostalgico momento di ritorno al passato, dopo l'abbandono e l'incomunicabilità (altri due temi chiave del disco) prima di esplodere nell'orchestrale "Bring the Boys Back Home", un breve lampo pacifista che trova le sue fondamenta nel richiamo dei valori fondamentali, per se stessi. Poi è il momento di un altro pezzo famosissimo, la bellissima "Comfortably Numb",riflessione sull'anestesia che impedisce la visione dell'orrore del vuoto, scritta da David Gilmour (insieme a Waters) e guidata dai suoi, memorabili, assoli, da sempre basati su poche note prolungate, capaci di entrare nella storia. Il protagonista a questo punto non è più lui, la spersonalizzazione è completa, e il suo alter ego, la sua maschera, entra a far parte del meccanismo trita carne. Così, nelle canzoni seguenti, la critica ai totalitarismi (e agli show rock) diventa un pretesto per evidenziare una nuova forma di difesa, diversa dall'isolamento: l'aggressività. Al posto del muro, Pink ha creato così una nuova figura di sè, un aguzzino, come coloro che avevano contribuito a sollevare il muro intorno a lui. Ognuno dentro di sè possiede i semi dell'intolleranza. "Stop" è un brevissimo intermezzo pianistico che implica una svolta fondamentale nel personaggio, che diventa consapevole della farsa alla quale ha preso parte attiva, divenendone complice. Questo porta ad una ribellione, tanto breve quanto intensa. Nella terrificante "The Trial", maestosa conclusione teatrale, due parti antitetiche di Pink si scontrano, sotto forma dei personaggi in precedenza incontrati. La voce, ora sofferta e tremante, ora violenta e accusatrice, dona epicità ad un finale caratterizzato da atmosfere orchestrali e strumenti elettrici, quasi a ricordare l'esperimento progressivo di Atom Heart Mother. E mentre lo scontro tra la coscienza di Pink che ha visto la verità e la parte di sè legata ai valori del sistema alienante (che cerca di mettere a nudo la personalità disturbata di Pink, in un mondo dove la maschera è fondamentale per sopravvivere) diventa violento, il muro crolla, e "Outside the Wall" diventa un punto di domanda, interrotto improvvisamente: questa rivoluzione porterà ad una evoluzione, oppure ad una definitiva caduta? La risposta non è data, e l'opera, la più complessa nella carriera dei Pink Floyd, mantiene quel fascino misterioso che la caratterizza dal 1979, continuando a rimanere attuale sia nelle tematiche sia nelle soluzioni musicali come pochi capolavori riescono a fare a distanza di tempo.


*cit. Gabriele Marciano,"Pink. Un'anima in scena", tratto da "Pink Floyd - The Wall. Rock e multimedialità", libro che mi ha aiutato a comprendere meglio il disco


Riccardo Tognini

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