Dolci gocce di piano si fondono sulla tavolozza del pittore che, con precisione maniacale, dipinge emozioni, brillanti e lucide, nell'anima dell'ascoltatore. Chitarre veloci sfrecciano nel cielo come angeli, mentre la luce del tramonto colora lunghe scalinate ritmiche, che si avvolgono su se stesse, verso l'infinito. Immagini intense, che continuamente mutano, come biglie che scivolano su una scala a chiocciola, senza arrestarsi mai. I Dream Theater dipingono un'opera totale, e la sensazione che si ha entrando in quest'affresco, è quella di toccare una perfetta scultura di avorio, apparentemente immobile e gelida, ma dotata di un'anima e di una sensibilità palpabile. Così come “Pull me Under”, con i suoi riff rocciosi e potenti e le veloci ripartenze, apre con luminosa ed epica energia questo disco, “Another Day” mostra l'altra faccia della stessa medaglia, tra melodie celestiali e una dolce malinconia non priva di speranza che infiammerà anche il resto del disco. E il calore è una sensazione che entra dentro ad ogni ascolto di questo lavoro, (così come sarà il gelo per il disco seguente,lo stupendo Awake), un calore che sembra espandersi nei bellissimi e commoventi stacchi pianistici di Kevin Moore (autore di una goccia di infinito,”Wait for Sleep”), tastierista ancora rimpianto da molti fans, dopo il suo abbandono, o negli assoli di John Petrucci (indimenticabile il capolavoro solista su “Under a Glass Moon” ), che riesce a coniugare le spaziali melodie di Satriani alla potenza del metal dei primi anni 90 e la ricercatezza e la complessità del rock progressivo. Non è solo la capacità di riprendere le idee di Rush, Yes e Pink Floyd e riadattarle a sonorità più pesanti, ispirandosi a Fates Warning e Queensryche, che rende questo disco (il secondo della band newyorkese) un vero e proprio gioiello, ma è proprio la capacità, che i Dream Theater dimostrano di possedere appieno, di rinnovare (come vuole la definizione di prog) atmosfere e soluzioni musicali. Così questi 5 ragazzi conosciutisi in conservatorio riversano le loro incredibili abilità tecniche in stacchi strumentali di zappiana genialità e sognanti visioni che vibrano di un fuoco interiore che raramente la band riusce negli ultimi anni a ripetere con la stessa intensità (ed originalità). La parte centrale di “Metropolis”, canzone simbolo della band, diventerà un pezzo di storia, grazie anche alle intricate soluzioni ritmiche del batterista Mike Portnoy, vero e proprio trascinatore (anche in sede live). E se il silenzioso John Myung guida con il suo basso i riff poderosi, senza limitarsi al già enorme compito di riempire laddove una sola chitarra non può arrivare, la vera novità è la voce di James LaBrie. Appena entrato nella band, il cantante canadese dimostra un'intensità che si manifesta in tutta la sua grandezza in canzoni come “Surrounded”, dove, insieme a Moore, ci accompagna in un vero e proprio sogno di luce. Una menzione particolare deve, senza dubbio, essere rivolta ai testi che, poetici e surrealmente complessi, affrontano temi difficili come il nostro rapporto con la morte o la solitudine, senza disdegnare frammenti di pensieri e preghiere il cui destinatario è il nostro prossimo, con il quale ci confrontiamo continuamente, fino a rappresentare noi stessi. Il centro dell'opera, infatti, siamo proprio noi, la nostra capacità di amare e di trovare la speranza, in ogni cosa che ci circonda. Images & Words, uscito nel 1992, è un'opera che segnerà profondamente la musica metal (e non solo) e che aprirà la strada ad una band tra le più amate/odiate del panorama rock contemporaneo.
“The way your heart sounds, makes all the difference
it's what decides if you'll endure the pain that we all feel
the way your heart beats, makes all the difference
in learning to live
spread before you is your soul
so forever hold the dreams, within our hearts
through nature's inflexible grace
I'm learning to live”
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