A Sense of Loss, terzo disco dei romani Nosound, rappresenta la maturazione. Dopo i primi esperimenti solisti di Giancarlo Erra, culminati nell’album Sol29 (2005), e la costituzione di una band vera e propria, che con Lightdark (2008) si è imposta come una delle più interessanti realtà italiane, con A Sense of Loss i Nosound acquisiscono una personalità che nei lavori precedenti non era ancora pienamente matura. Fin dalle prime, eteree, note del disco si percepisce una rielaborazione maggiormente personale della proposta, a cavallo tra ambient, rock progressivo e post rock. Atmosfere sospese, come una fitta nebbia autunnale, dal sapore vagamente onirico e psichedelico. La lezione è sempre quella dei primi Porcupine Tree e dei No-man, ma la sensibilità con la quale Erra tratta la materia sonora è personale, e completamente matura. Un tappeto fluttuante di synth, tastiere e archi che creano uno strato sonoro compatto ma mai pesante, nel quale penetrano delicati arpeggi chitarristici e malinconiche note di pianoforte. La sensazione è quella di vagare, senza una meta precisa, in una città solitaria e resa gelida da una leggera nebbia. In alcuni momenti una luce si accende in una casa, e sembra guidarci con il suo calore, ma niente è ben definito, e ci perdiamo nuovamente. Le melodie sono bozzetti che scivolano senza farsi afferrare completamente, e donano un senso di incompiutezza che rende questo lavoro ancor più affascinante e misterioso.
L’incipit è delicato e fragile, l’atmosfera è straniante, e fin da subito ci sentiamo persi nel lungo accordo iniziale. Some Warmth into this Chill, brano d’apertura, mette da parte la ricerca di una melodia portante, in favore di un’analisi delle atmosfere, e raggiunge il suo culmine in un breve assolo pianistico che ricorda lo stile di David Sylvian.
Con la successiva Fading Silently veniamo introdotti in un universo che scorre al rallentatore, e le melodie risultano più riconoscibili e di facile approdo. Il brano ha come struttura portante un affascinante arrangiamento sinfonico che perfettamente si abbina alle poche e calibrate note di pianoforte, dimostrando la capacità della band di creare arrangiamenti complessi ma mai pesanti, e perfettamente funzionali alle necessità comunicative dei brani.
Tender Claim richiama più esplicitamente lo stile psichedelico dei Porcupine Tree di Steven Wilson, principale fonte d’ispirazione per la band. Ma i Nosound rielaborano il pop sinfonico dai sapori psichedelici con una maturità decisamente superiore rispetto al passato. Come il precedente, anche questo brano nella seconda parte scorre strumentale, ma in questo caso per perdersi alla deriva di un tappeto ambient davvero affascinante.
My Apology si dimostra un brano più terreno, guidato da un bellissimo arpeggio di chitarra e dalla voce di Erra. Gli strati sonori si assottigliano in questa ballata malinconica, che mantiene comunque l’atmosfera crepuscolare e vagamente onirica del resto dell’album. La voce di Erra convince, con il suo incedere lento e profondamente ipnotico, ma forse il timbro non è abbastanza intenso e caldo, naturale, e risulta un piccolo difetto in un disco decisamente riuscito.
Constant Contrast suona come una silenziosa meditazione dei Bark Psychosis, e nella sua ipnosi malinconica risulta ricca di particolari che si intrecciano perfettamente senza mai accavallarsi. Rarefatta, ricca di spazi vuoti, è un momento cruciale del disco. Un sogno che scivola nella nebbia umida che avvolge l’album, un passaggio senza il quale non potremmo entrare nella lunga suite finale.
I 15 minuti di Winter Will Come sono il cinematografico capitolo finale dell’album. La surreale nebbia onirica che ci ha guidati fin qui, si sviluppa e si trasforma in una nuova consapevolezza, si apre mostrandoci tutto più chiaramente, con lucidità. Questo non attraverso facili e immediate melodie, bensì grazie ad un’evoluzione delle atmosfere che si fanno qui più luminose e calde, e ci indirizzano lungo una strada definita che è la struttura del brano, a metà tra rock progressivo e post rock. C’è un senso di quiete, di pace, che intravediamo più chiaramente dietro il velo di nostalgica malinconia. Un finale epico ma non ridondante, che ricorda i Sigur Ros per i suoi crescendo, le sue lunghe pause, e le ripartenze. La nebbia si è diradata, e la sensazione è quella di trovarsi su una spiaggia deserta, in autunno, assaporando il calore dell’ultimo Sole, prima dell’esplosione di un nuovo, gelido, inverno. Una distorsione irrompe possente, accompagnata ancora una volta dagli archi, e la canzone si spalanca, meravigliosa, prima di accartocciarsi e prendere nuovamente fiato. Un passaggio che carpisce ancora una volta linfa vitale dalla musica d’ambiente, prima delle battute finali, epiche e drammatiche.
Se già il precedente Lightdark dimostrava una band capace di comporre ottima musica, A Sense of Loss non solo è la conferma di tale capacità, ma è un decisivo passo in avanti per quanto riguarda la sviluppo della personalità. Manca forse ancora la maturità necessaria per comporre melodie portanti efficaci da innestarsi sui meravigliosi tappeti ambient, ma forse è proprio questa incompiutezza che dona maggior fascino ad un album straordinario, in grado di miscelare con sapienza arrangiamenti complessi ed emozioni intime, senza mai perdere intensità.
L’incipit è delicato e fragile, l’atmosfera è straniante, e fin da subito ci sentiamo persi nel lungo accordo iniziale. Some Warmth into this Chill, brano d’apertura, mette da parte la ricerca di una melodia portante, in favore di un’analisi delle atmosfere, e raggiunge il suo culmine in un breve assolo pianistico che ricorda lo stile di David Sylvian.
Con la successiva Fading Silently veniamo introdotti in un universo che scorre al rallentatore, e le melodie risultano più riconoscibili e di facile approdo. Il brano ha come struttura portante un affascinante arrangiamento sinfonico che perfettamente si abbina alle poche e calibrate note di pianoforte, dimostrando la capacità della band di creare arrangiamenti complessi ma mai pesanti, e perfettamente funzionali alle necessità comunicative dei brani.
Tender Claim richiama più esplicitamente lo stile psichedelico dei Porcupine Tree di Steven Wilson, principale fonte d’ispirazione per la band. Ma i Nosound rielaborano il pop sinfonico dai sapori psichedelici con una maturità decisamente superiore rispetto al passato. Come il precedente, anche questo brano nella seconda parte scorre strumentale, ma in questo caso per perdersi alla deriva di un tappeto ambient davvero affascinante.
My Apology si dimostra un brano più terreno, guidato da un bellissimo arpeggio di chitarra e dalla voce di Erra. Gli strati sonori si assottigliano in questa ballata malinconica, che mantiene comunque l’atmosfera crepuscolare e vagamente onirica del resto dell’album. La voce di Erra convince, con il suo incedere lento e profondamente ipnotico, ma forse il timbro non è abbastanza intenso e caldo, naturale, e risulta un piccolo difetto in un disco decisamente riuscito.
Constant Contrast suona come una silenziosa meditazione dei Bark Psychosis, e nella sua ipnosi malinconica risulta ricca di particolari che si intrecciano perfettamente senza mai accavallarsi. Rarefatta, ricca di spazi vuoti, è un momento cruciale del disco. Un sogno che scivola nella nebbia umida che avvolge l’album, un passaggio senza il quale non potremmo entrare nella lunga suite finale.
I 15 minuti di Winter Will Come sono il cinematografico capitolo finale dell’album. La surreale nebbia onirica che ci ha guidati fin qui, si sviluppa e si trasforma in una nuova consapevolezza, si apre mostrandoci tutto più chiaramente, con lucidità. Questo non attraverso facili e immediate melodie, bensì grazie ad un’evoluzione delle atmosfere che si fanno qui più luminose e calde, e ci indirizzano lungo una strada definita che è la struttura del brano, a metà tra rock progressivo e post rock. C’è un senso di quiete, di pace, che intravediamo più chiaramente dietro il velo di nostalgica malinconia. Un finale epico ma non ridondante, che ricorda i Sigur Ros per i suoi crescendo, le sue lunghe pause, e le ripartenze. La nebbia si è diradata, e la sensazione è quella di trovarsi su una spiaggia deserta, in autunno, assaporando il calore dell’ultimo Sole, prima dell’esplosione di un nuovo, gelido, inverno. Una distorsione irrompe possente, accompagnata ancora una volta dagli archi, e la canzone si spalanca, meravigliosa, prima di accartocciarsi e prendere nuovamente fiato. Un passaggio che carpisce ancora una volta linfa vitale dalla musica d’ambiente, prima delle battute finali, epiche e drammatiche.
Se già il precedente Lightdark dimostrava una band capace di comporre ottima musica, A Sense of Loss non solo è la conferma di tale capacità, ma è un decisivo passo in avanti per quanto riguarda la sviluppo della personalità. Manca forse ancora la maturità necessaria per comporre melodie portanti efficaci da innestarsi sui meravigliosi tappeti ambient, ma forse è proprio questa incompiutezza che dona maggior fascino ad un album straordinario, in grado di miscelare con sapienza arrangiamenti complessi ed emozioni intime, senza mai perdere intensità.
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