Un uomo di fronte ad una spaziosa vetrata osserva un
oceano di nuvole. La bella copertina di Welcome to my DNA (concepita da Carl
Glover inizialmente per l’ultimo disco dei Marillion) ben si sposa con la
serenità della musica della band di Wilson e Geffen, che mai in precedenza aveva
ricercato atmosfere tanto solari. La delicata malinconia assume in
quest’occasione un tono ancor più romantico che in passato, smarrendo il
retrogusto sottilmente psichedelico e l’affascinante nostalgia dei primi due
album, per avvicinarsi molto a sofisticato pop da classifica. Anziché lasciarsi
andare a sussulti emotivi, l’album scorre in una quiete soffusa che da una parte
ammalia e coinvolge per il suo spirito sentimentale, dall’altra stucca per
alcuni passaggi ai limiti dello sdolcinato e del melenso. La sensibilità di
Geffen è la vera protagonista dei Blackfield recenti, e la dimostrazione risiede
nel fatto che il musicista israeliano abbia composto 10 degli 11 brani, e si sia
preso cura di quasi tutti gli arrangiamenti orchestrali. Proprio l’abbondanza
degli strati sonori a tratti risulta eccessiva e soffoca le melodie, togliendo
un pizzico di intimità, in favore di una vena epica e maestosa. Ma nel complesso
l’album emoziona, soprattutto quando con semplicità disegna melodie romantiche
(Glass House, DNA). Il rischio di cadere nel calderone del pop da supermercato è
quanto meno evidente ma la band riesce sempre a rimanere in bilico senza mai
precipitare, grazie soprattutto ad alcuni lampi degni del sublime passato
(Zigota).
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