Nel grido iniziale di Them Bones,
che apre Dirt, si nasconde l’orgasmo dopo l’iniezione di eroina e, al tempo
stesso, il dolore lancinante della propria sconfitta. Uno dei pochi attimi di
ambiguità in un’opera che ben presto crolla nella sporcizia e nella sofferenza,
senza possibilità (e volontà) di scampo. In pochi secondi l’oscura progressione
metallica trascina le parole di Layne Staley nel buio più profondo, e rimane soltanto la rabbia
a ricordare di esser ancora vivi. Lucida
presa di coscienza di uno stato di autodistruzione prossimo al punto di non
ritorno, e nessuna forza (e volontà, ripeto) in grado di sbloccare questo tetro
stadio di contemplazione apatica.
E’ il 1992 quando Dirt viene
pubblicato, giusto in tempo per cavalcare l’ondata grunge che in quel periodo
si sta abbattendo sugli stereo degli adolescenti annoiati dagli eccessi degli
anni 80. A quasi venti anni di distanza, Dirt conferma la sua spaventosa forza
espressiva, che lo rende uno degli apici assoluti del sound di quegli anni, e
un capolavoro al di fuori del tempo e delle mode. Un disco intenso e toccante,
senza attimi di tregua nè cali di intensità.
Fin dal brano di apertura veniamo
travolti da un flusso vocale fluttuante
e ipnotico, dal sapore morboso, nel quale si miscelano le straordinarie voci di
Layne Staley e Jerry Cantrell. Uno sdoppiamento inscindibile che fa
rabbrividire per capacità espressiva e che renderà unico il sound del gruppo
all’interno del panorama musicale. Questo contribuisce a dipingere melodie in
perenne deformazione e dilatazione, in continuo oscillare tra straniamento e
angoscia. Dopo la partenza, tanto rabbiosa e ringhiante, quanto agghiacciante
nella sua ineluttabilità, l’album propone un altro energico brano composto da
Cantrell, Dam that River, un hard rock acido che richiama le atmosfere del
primo album, e nel quale si nasconde la volontà di non accettare la forza
trascinante dell’eroina, ma anche l’impossibilità di affrontarla. In questa
debolezza, e nel suo autocompiacimento, Dirt si riallaccia con forza alla
disillusione che ha reso popolare il fenomeno grunge, in contrapposizione
all’energia apparentemente incontrastabile esaltata dalla musica degli anni 80.
Non secondario il fatto che tale spinta autodistruttiva e disincantata venga
proprio da una band che ha profonde radici nel contesto musicale dello street
rock e che fin dal primo eccellente album si era imbattuta nei meccanismi della
musica mainstream. Che la strada intrapresa dalla band di Seattle sia sempre
più distante da quella dei Guns n’ Roses è confermato da Rain when I Day,
monumentale brano psichedelico che si apre con una tempesta di blues acido
dall’incedere lento e obliquo, eternamente sfilacciato in un mare di riverberi
(anche vocali), e prosegue in un fangoso susseguirsi di riff colmi di wah wah. Uno
dei punti di forza dell’album è proprio la chitarra di Jerry Cantrell,
compressa e chirurgica, che intreccia riff pesanti, a metà tra il metal
possente del Black Album dei Metallica e l’hard rock acido, soprattutto negli
assoli infuocati, nei fraseggi sdoppiati e nello straordinario utilizzo del wah
wah, che amplifica l’effetto oscillatorio e di precario equilibrio dell’intero
album. Il baratro allucinatorio viene toccato in Sickman, brano dissonante e schizoide,
in cui Staley canta la propria malattia a cavallo di una tetra e sfasata musica
da Luna Park, sorta di rilettura malata di I want You (She’s so Heavy) dei
Beatles. Vertiginosa perdita di controllo verso una paranoia disturbante, per
certi versi simile ad una spirale psichedelica, in cui i colori non sono quelli
affascinanti della summer of love, ma accesi e surreali flash di un cattivo
viaggio. Siamo di fronte ad una perversa musica per la mente, unica nel suo
genere, dai toni schifosamente sinceri e sentiti, tanto quanto i brani più
sporchi dei Velvet Underground. I ritmi si placano, e le atmosfere malinconiche
di Rooster donano un senso di attesa sottilmente inquietante, anche perché i
testi (dedicati da Cantrell a suo padre, veterano della guerra del Vietnam) sono ancora una volta spaventosi, e
nell’esplosione distorta che spezza la struttura della ballata si nasconde
l’eco di una bomba, che contribuisce a rendere plumbea l’atmosfera di un album
nel quale i raggi di luce sono solo immaginari. Junkhead, con il suo incedere
sabbathiano, è il grottesco raggio di luce. Un inno compiaciuto alla propria
dipendenza, con un orgoglio ostentato tanto
agghiacciante quanto triste, soprattutto se confrontato con la vergogna cantata
nella splendida Dirt. La title track si
apre con un affascinante fraseggio dal sapore orientale e, se musicalmente è
una sorta di prosecuzione del brano precedente, dal punto di vista tematico ne
è l’antitesi completa. Vergogna, senso di inadeguatezza e incapacità, voglia di
morire. La vera e propria fine dell’epoca del sex, drugs & rock n’ roll,
attraverso una rilettura personale e moderna della musica catacombale dei primi
Black Sabbath. La sofferenza di Layne Staley (che nel 2002 cadrà in
quell’abisso dal quale era ossessionato, come Mike Starr nove anni dopo) è
intima ma, per certi versi, contagiosa. Forse perché è rimasta una rabbia
bruciante e un eco romantico che, seppur disilluso, rende appassionanti, e mai
meritevoli di semplice compassione, i versi del cantante. Godsmack, con la sua voce distorta e i riff
metal, è il perfetto passaggio dinamico prima che la delirante e ironica Iron
Gland (citazione di Iron Man dei Black Sabbath, con urla di Tom Araya degli
Slayer) faccia da ponte per l’alienante Hate to Feel. Tornano le cantilene e le
strutture spezzate, le sovrapposizioni melodiche surreali, ipnotiche e
ossessive. La voce (e con lei tutta la musica che si intreccia, si sdoppia e si
avvolge in essa) è di una spossatezza infinita e probabilmente
irrimediabile, nonostante alcune
esplosioni passionali. Vorticosa e disorientante, è uno degli episodi più
dissonanti della discografia della band, che se in alcune melodie vocali (e a
tratti nel timbro acido di Staley) ricorda i Nirvana, e in alcune soluzioni
musicali i Soundgarden, nel complesso suona assolutamente unica all’interno
della realtà di Seattle. A dimostrazione di una poetica solo in parte legata
all’immaginario grunge, giunge l’inquietante Angry Chair. Spaventoso gioco di
specchi, è un bad trip che sfrutta la pesantezza del metal per generare
oppressione, con bordate possenti che stravolgono l’idea di base, mutuata probabilmente dai Melvins,
per dipingere uno scenario da incubo, dal gusto repellente. Dopo la ferocia
disturbante di Angry Chair, lato oscuro di Staley, la quiete di Down in a Hole, ad opera di
Cantrell, è quasi catartica. La fine del viaggio è in fondo ad una fossa, ma
l’immaginario questa volta non è terrificante, bensì drammatico e commovente. Down
in a Hole è una poesia martoriata e sofferta, una sorta di Requiem che trova le
sue radici nei suoni del bellissimo ep Sap (1992) e che troverà ancora sfogo
nelle chitarre acustiche di Jar of Flies (1994). Memorabile ballata romantica
considerata, a ragione, uno degli apici della discografia della band. Would?, canzone
oscura introdotta da uno straordinario giro di basso di Mike Starr, conclude il
viaggio. Un punto interrogativo che lascia aperte le speranze di un ritorno,
nonostante il corpo sia alla deriva e le possibilità di volare sembrino ridotte
al minimo. Nell’ambiguità finale termina il cammino, uno dei più disturbanti ma
anche commoventi mai descritti, continuo dissociarsi e sfocarsi tra, da un
lato, la carne, e dall’altro, la mente. Il ricongiungimento non pare possibile,
ma in quel punto interrogativo si cela un raggio di luce. Raggio che Layne
Staley e Mike Starr non sapranno cogliere, perdendosi per sempre negli stessi
incubi protagonisti di Dirt.